sabato 4 dicembre 2021

Erranimo "The Origami Way" - Recensione Album #33

 


Questa non è una vera e propria recensione. Infatti questo post, è semplicemente un consiglio, un "piccolo spazio pubblicità" (eddai, accettatela questa citazione!). "Erranimo", è il moniker di un artista solista che arriva dalla Campania, con questo eccezionale lavoro che spazia dall'elettronica, al synth-pop con numerose contaminazioni elletro-rock. Una ona man band dall'animo gentile, con una voce soave e pulita, a cui siamo ben poco abituati su questo blog (non è la prima volta comunque che parliamo di questo genere qui nella stanza), "The Origami Way" è un lavoro diverso dal solito, ma assolutamente non mancante di punti di congiunzione col metal più atmosferico e introspettivo, benché in forma elettronica. Dodici tracce di dolcezza, atmosfera e introspezione, che non deluderà chi tra di voi ama le sonorità particolari e accoglienti, come un tenue tepore che di questi tempi freddi non guasta! Trovate il soundcloud di Erranimo Qui, dateci un'occhiata, non ve ne pentirete!

Anthony



sabato 23 ottobre 2021

Cradle Of Filth - Existence Is Futile - Recensione Album #32


Dopo il controverso e discusso “Cryptoriana - The Seductiveness of Decay”, tornano i Cradle of Filth, la storica band capeggiata da Dani Filth, che tanto divide e fa discutere gli appassionati, ma che, tuttavia, volenti o nolenti, bisogna ammettere che ha fatto la storia ed ispirato milioni di artisti nel corso degli anni. “Existence Is Futile” è il nuovo lavoro in studio che si presenta già in pompa magna, con una copertina eccezionale, ispirata a “Il giardino delle delizie terrene” di Bosh. Dodici brani più un paio di bonus, per un totale di circa 54 minuti di musica, che rendono questo album praticamente un monolito nella carriera degli inglesi.

“The Fate Of The World On Our Shoulders” apre le danze, una intro sinfonica che ci prepara a quello che sta per succedere. Inquietudine subdola e strisciante ma che tuttavia non cela la sua presenza e mette subito in chiaro l’atmosfera che ci avvolgerà a breve, come quando appena scatta “Existential Terror” e veniamo immediatamente avvolti da cori e melodie per poi sfociare nella voce malefica di Dani Filth. Vengo immediatamente assalito da un senso di oscurità e depressione, una malinconia mista al classico ardore scatenato a cui i Cradle ci hanno sempre abituati, ma che in questo caso risulta smorzato. “Necromantic Fantasies” ci ricorda che sono pur sempre i Cradle of Filth e che quindi qui la perversione e la malattia non mancano. Infatti il singolo estratto da “Existence Is Futile”, è un pieno manifesto della sonorità dell’intero album, ma non solo, dell’intera storia della band. Numerosi sono i richiami ai lavori precedenti infatti, da “Her ghost in the fog” a “Midian”, la band non tralascia minimamente i suoi trascorsi e omaggia la sua stessa storia, arricchendola dello stato d’animo del 2021, dove non sono certo mancati i motivi di ansia e depressione! “Crawling King Chaos” invece, parte in pieno stile black metal svedese, arricchito (?) da sinfonie e vocalizzi femminili, che accompagnano, ma non frenano, la corsa in palm mute di tutto il brano. Meravigliosi blast beat deliziano la tromba di Eustachio insieme alla parti più squisitamente sinfoniche che fanno da accattivante e monumentale ritornello. “Here Comes A Candle… (Infernal Lullaby)” è un interludio che separa la prima parte dell’album. Lievi e calde note di pianoforte e altri strumenti classici, per una pausa forse un po’ precoce, ma gradita. La calma viene spazzata via in un lampo con la furiosa intro di “Black Smoke Curling From The Lips Of War”, forse il brano più classico dell’album, che rende fede a ciò a cui la band ci ha abituato. Un feroce dialogo a due voci che alterna lo scream acido alla soave (ma cattiva!) voce femminile che accompagna, alterna e spesso colora l’intero brano. Notevole è il lavoro delle chitarre in questa sezione, ma come in tutto l’album a dire il vero). Assoli melodici e fraseggi spettacolari per “Discourse Between A Man And His Soul”. Un pezzo che rasenta la ballad e fa della melodia oscura il suo punto di forza. Non mancano le sfuriate e la violenza, ma è l’introspezione che regna. Ancora una conferma per questo lavoro che si discosta e se vogliamo, evolve l’impronta dei Cradle of Filth, senza tradire il loro stile e ciò che i fan amano, ma che aggiunge quel tocco di malinconia ad uno stile caotico e pieno di rabbia furiosa. La voce femminile, fredda e solenne, ci accoglie in “The Dying Of The Embers”, atmosferico brano incredibilmente evocativo, che forse lascerà un attimo increduli davanti ad un lavoro così simile eppure così rinnovato, nella scrittura, negli elementi e nello stile, tanto da sembrare (e magari lo è) una nuova era per la band, una evoluzione totale che porta una grande consapevolezza che, abbinata ad una maestria che poche band riescono ad eguagliare, non può fare altro che sfornare un album che a mio avviso è già un piccolo, grande cult. “Ashen Mortality” è il secondo, fatato intermezzo, che trasuda fantasy da tutti i pori e che ci rilassa per poco più di un minuto, prima dell’incredibile “How Many Tears To Nurture A Rose?” che è il pezzo più convincente e che più mi ha entusiasmato fino ad ora. Un riff coinvolgente, che fa venire voglia di pogare, di sbattere la testa e che anche chiudendo gli occhi, trasmette sensazioni introspettive, perfettamente amalgamate alla violenza di un vero frullatore da mosh, potente, evocativo, in una parola: splendido! Proseguiamo con “Suffer Our Dominion”, in cui la voce narrante, è quella di “Doug Bradley”, ovvero l’attore che interpreta “Pinhead”, nella serie horror “Hellriser”, che ha dato il suo particolare contributo a questo album, arricchendolo di questa chicca interessante per gli appassionati. Ma “Suffer Our Dominion” non è solo questo. Si tratta di un brano assolutamente fantastico, un capolavoro di chitarra metal in cui ancora una volta la band mette i puntini sulle i e non si lascia intimorire dalle possibili male lingue e sforna pezzi enormi uno dietro l’altro, come “Us, Dark, Invincible”, in cui il riff è arricchito da violini che prendono il sopravvento e diventano parte integrante di tutto il comparto lead. Un brano che gira su un blanding morbido e costante, che ci accompagna anche nei rallentamenti e nell’outro e che trasuda inquietudine, soprattutto nel momento in un cui un tappeto di synth si unisce al pianoforte e il tutto si spegne, per lasciare spazio all’intro ambientale della prima traccia bonus, la sinfonica “Sisters Of The Mist”, che è inoltre il pezzo più lungo dell’intero album. Una canzone veloce, fatta di riff brevi e rullante martellante, spesso interrotta da una voce narrante nasale e distonica, di cui i Cradle hanno spesso abusato nei loro lavori precedenti, infatti, “Sisters Of The Mist”, tanto deve al già sopracitato “Midian”. Notevole è poi la cerimonia fatti di archi, fiati e altri strumenti orchestrali sul finali, che si innalzano e sfociano in un assolo da brividi. Davvero la band ha dato più volte prova di essersi superata con questo lavoro, ogni brano è ispirato e ben strutturato, ben scritto, con una produzione ottima (forse fin troppo) e nessun dettaglio è stata tralasciato, così come nell’ultimo pezzo che conclude questo lungo viaggio in “Existence Is Futile”, ovvero la seconda traccia bonus “Unleash The Hellion” che, se vogliamo, rende ancora più complesso un album maturo, forte, coraggioso e stupendo. Se di primo acchito i fan di vecchia data potrebbero restare spiazzati, con il proseguimento dell’ascolto invece, resteranno sicuramente affascinati e appagati da questo lavoro che è assolutamente un grandissimo album, destinato a far parlare ancora per molto tempo gli amanti del metal. I Cradle of Filth, dopo un paio di lavori leggermente sottotono, hanno ritrovato una rinata linfa vitale, aggiungendo un’altra incredibile arma al proprio arsenale, l’ennesima prova per una band che ormai non ha più nulla da dimostrare ma che anzi, è già da un paio di decenni, tra quelli che dettano le regole di come si fa del buon metal. Se avete da ridire anche su “Existence Is Futile”, allora dovete davvero spiegarmi cosa cercate nel panorama black estremo.

Antony


martedì 23 febbraio 2021

Epica - La "Teoria del punto Omega" - Recensione Album #31

 


A cura di Anthony

Sono poche le band che non solo riescono a mantenere una costanza nelle uscite, ma ancora meno quelle che riescono a tenere alto l’interesse verso la loro proposta, con intermezzi di Ep e altre release tra un album e l’altro, cosa che hanno saputo fare benissimo gli Epica che, in questi cinque anni dall’ultimo album, ci hanno regalato quasi una dozzina di lavori tra Ep e singoli inediti e persino una versione di “Design your universe”, totalmente rimasterizzata. Arriviamo quindi al fatidico momento, finalmente l’ottavo full-length della band olandese, è arrivato. Cinque anni d’attesa sono lunghi (anche causa covid) ed in tutto questo tempo i fan, benché allietati dalle continue piccole delizie sfornate dalla band nel frattempo, si sono chiesti cosa dovessero aspettarsi da questo “Omega”, molti già terrorizzati dal titolo, che effettivamente suona come un punto d’arrivo, come se non ci fosse altro motivo per continuare. Fortunatamente, la a dir poco meravigliosa Simone Simons ha dichiarato più volte in alcune interviste, che questo non è affatto l’ultimo album della loro carriera, ma che il titolo si riferisce alla “teoria del punto Omega”, cioè l’intersezione che passa tra la scienza e la spiritualità, che si uniscono a spirale verso un punto di congiunzione divina, chiamato appunto “Omega”. Basterebbe già questo per chiudere qui la recensione, buttare via qualsiasi dubbio ed acquistare a scatola chiusa il disco (comprate i dischi, mannaggia a voi!), soprattutto quando non si placa la polemica su quella brodaglia di scarti organici che è il festival di Sanremo, immaginate me, ora a godermi una tale meraviglia (non solo musicale, ma concettuale e artistica), che vedo in tv marionette patinate che si scannano per della merda sonora, spacciata per cioccolato sublime. Sconforto e snobbismo musicale!

Comunque, chiuse le altre storie “Omega” si compone di dodici tracce, più un Ep con altri 4 brani, chiamato “Omegacoustic”. Come da tradizione per gli Epica, il disco si apre con una intro, in questo caso chiamata "Alpha – Anteludium, tenui note di pianoforte, accompagnate da archi, creano un’atmosfera piacevole, molto evocativa, una natura incontaminata e fatata si apre nella mia mente, come un paradiso terrestre popolato da elfi ed i crescenti cori sinfonici, creano castelli sulle nuvole e colori pastello, una gioia per gli occhi e per la mente. Immediatamente dopo, parte il riffing già inconfondibile di "Abyss of Time – Countdown to Singularity", il primo singolo estratto da “Omega”. Un brano in pieno stile Epica, pomposo, esplosivo, complesso, con un video enigmatico ed una perfetta potenza sonora, amplificata da una corsa in doppia cassa che accarezza l’anima. Non mancano aperture ariose e l’accompagnamento di cori che danno quel tocco di mistico e macabro al tutto. Le voci si alternano e si intrecciano nel growl cupo e minaccioso di Mark Jansen e alla voce angelica con numerose note liriche di Simone, ci troviamo a correre lungo una corda intrecciata, fatta di oro, luce solare e meraviglia.

Il tutto cambia e si trasforma con "The Skeleton Key", atmosfere lugubri e pesanti che non ti aspetti, per un brano che apre con un pianoforte inquietante che subito viene affiancato dalle sinfonie occulte ed il growl la fa da padrone. La voce femminile sublime e delicata scrive una vera e propria fiaba nera in musica. La luce che fino a poco fa ci aveva attraversato ed accarezzato, pare svanita per lasciarci all’abbraccio gelido, seppur melodico, delle tenebre di una soffitta vuota, di un labirinto abbandonato, dove incontrare creature enigmatiche e dalle dubbie intenzioni, che cercano di circuire la nostra mente. I cori con le voci dei bambini, sono un tocco davvero inquietante, che non mi sarei aspettato. Ma un assolo splendido, seppur un po’ corto, svia ogni dubbio e torno a godermi questa storia dell’orrore gotico.

La sinfonia è la chiave intorno a cui tutto ruota ne "Seal of Solomon", tornano le scale arabe da sempre tanto care alla band e l’intero brano è una continua esplosione di melodia e sinfonia, come una immensa e sincerissima preghiera dedicata a divinità ignote e dubbie. Anche qui la voce principale è quella di Mark, che si appoggia alle note alte di Simone per esplodere nella potenza compositiva di una sinfonia che riesce ad inquietare e caricare, mantenendo un’atmosfera che sa di medio oriente e misteri celati da secoli, tra le sabbie custodi di tempi lontani e indicibili, che tanto hanno affascinato scrittori ed artisti, come il grande maestro H.P.Lovecraft. L’esplosione che più colpisce nel segno tuttavia, è anche qui la corsa in solitaria della chitarra di Isaac Delahaye, che si incastra perfettamente nel flusso compositivo ed è praticamente la ciliegina sulla torta.

"Gaia" smorza un po’ la tensione che si era venuta a creare con i brani precedenti. La splendida intro sinfonica con un fitto tappeto di doppia cassa, fa da apri porte per un pezzo orecchiabile e solare, che non disdegna la potenza sonora, ma che sacrifica le atmosfere più cupe, a favore di un ritornello più orecchiabile e leggero. Non abbiamo il classico intreccio di voci growl-clean, ma la parte vocale di “Gaia”, è lasciata quasi totalmente a Simone, tranne che per il bridge in cui inciampiamo nel sottobosco cupo e grezzo del growl. Anche qui è la parte sinfonica ad essere in maggior rilevanza, dando l’idea di un brano “pieno” e “pregno”, di elementi, come un piatto complesso e per niente semplice che all’assaggio, crea esplosioni di sapori indistinti e paradisiaci sul palato. “Non so cosa c’hai messo, ma ne voglio ancora!”.

Gli animi si placano e le atmosfere lugubri ed orientali si affacciano subito nell’intro di "Code of Life". Torna il senso di inquietudine e l’idea di “non essere al sicuro”, torna a lampeggiare come una spia che segnala un pericolo. Chitarre squisitamente “metal”, ci portano nel vivo della canzone. Melodie complesse ed inquietanti si incontrano e scontrano con un sound angelico, evocativo, una pinza palese all’intro iniziale, ci troviamo nel salone del castello visto in precedenza, davanti a noi un giardino dell’Eden colmo di pericoli e sotto di noi una nuvola a sostenerci e l’immensità del cielo. Uno dei brani più belli dell’intero album, una meraviglia per l’anima. Il ritornello è una carezza, le orecchie squirtano in un orgasmo celebrale che attraversa tutto il corpo ed il resto, semplicemente svanisce.

Arriviamo al secondo singolo estratto, ovvero "Freedom – The Wolves Within", brano dal titolo importante che è diventato un “istant cult”, merito anche del videoclip in cui due lupi si fronteggiano. Un brano adatto ad essere un singolo per pubblicizzare un album in uscita, da cui si può immediatamente capire l’andazzo.  Una boccata d’aria orecchiabile che ci prepara al pezzo più lungo e complesso dell’album, cioè "Kingdom of Heaven, Part 3 – The Antediluvian Universe", ben tredici minuti e venticinque secondi di concept, in pieno stile Epica. "Kingdom of Heaven”, è infatti una saga musicale che la band porta avanti attraverso i vari album, che si compone di sequel e prequel e che ogni brano, aggiunge un tassello alla storia. Suoni ambientali ci accolgono con un volume basso, sono quasi rassicuranti, anche se sappiamo che c’è molto altro sotto, cosa che si capisce benissimo dall’ingresso degli archi e dei fiati che anticipano gli strumenti più comunemente legati al metal. Una intro abbastanza lunga, che si prede tutto il tempo per richiamare alla mente le immagini solenni che ci hanno comunicato in precedenza. Si fa sul serio dopo la bella introduzione e le voci entrano in gioco dopo quasi quattro minuti di melodia solenne e sublime. Si tratta di un brano che racchiude diverse anime dentro di se, tutte perfettamente riconducibili e padroneggiate dalla band, da quella più melodica e facilmente approcciabile, a quella più squisitamente metal e aggressiva, fino al lato più classico, sinfonico e lirico della band, il tutto amalgamato alla perfezione in un processo songwriting complesso che richiede una grande consapevolezza, una grande maestria sia nella padronanza degli strumenti, che nelle scelte di pre e post-produzione. Un brano che si piazza di diritto accanto alle grandi classiche perle create dagli Epica in questi anni, come “Design your Universe”, “Serenade of self-destruction” e “The Holographic Principle (A Profound Understanding of Reality)”, giusto per fare qualche nome. Gli assoli di chitarra e tastiere, sono un punto altissimo, dove il progressive si abbraccia al metal più prettamente “Heavy” e ancora una volta, tutto ciò, mi sembra solo una sublime manifestazione di grazia, competenza e maestria dei nostri, che ormai non hanno più niente da dimostrare a nessuno, ma che non riescono a non sfiorare il divino.

Dopo tanta pomposità e grandezza, l’album cala i toni e si placa con “Rivers”, l’unica ballad inserita nella tracklist, che è stata inoltre il terzo singolo estratto prima del lancio ufficiale e che ha fatto impazzire i fan della parte più lieve e malinconica degli Epica. Gingle delicato ed orecchiabile e ci abbandoniamo nelle acque di questi fiumi infiniti, cullati dalla voce dolcissima di Simone, che man mano ci accompagna in questo brano che non presenta particolari tecnicismi, ma che è capace di suscitare emozioni malinconiche e toccanti, principalmente nella seconda parte, quando il brano, come da tradizione, si apre e ci dona l’ampio respiro pregno di sensazioni forti e decadenti.

La calma tuttavia dura poco: ci ributtiamo nella mischia con un altro dei brani più di valore di questo ottavo lavoro in studio, cioè "Synergize – Manic Manifest". Riffing violento e veloce, che prende a piene mani dal thrash e dal power metal, per andare a comporre un brano tuttavia luminoso e scorrevole, che mantiene alta la tensione grazie anche ai continui mid-tempo che si alternano al blast beat a sostenere un growl furioso, al limite del death metal ed il tutto esplode in un assolo lungo e complesso che si arrampica e volteggia tra scale e riffing, prima del ritornello finale, che risulta essere la conclusione più naturale del brano, come se quasi chiamasse a sé, quell’epilogo.

Ci avviciniamo purtroppo all’ultimo step, le segrete del castello, con "Twilight Reverie – The Hypnagogic State", brano totalmente in linea con i grandi pezzi ascoltati fino ad ora, con delle fasi melodiche che non lascerebbero indifferenti neanche qualcuno che odi questo genere, perché sono di una tale freschezza, una tale bellezza, sono semplicemente aria fresca in un mare di banalità e schifezze, basta accendere la radio per rendersene conto. Ad ascoltare pezzi simili, mi chiedo cos’hanno tanto da atteggiarsi quelli che creano quell’inquinamento acustico chiamato “trap” e soprattutto chi li ascolta; ma questo è un altro discorso. "Twilight Reverie – The Hypnagogic State", è un brano splendido, il giusto tassello che si incastra perfettamente in questo mosaico di bellezza sonora, perfettamente in linea con i pezzi precedenti, come “Code of life” e "Kingdom of Heaven, Part 3 – The Antediluvian Universe".

Chiude il cerchio, anche qui, come da tradizione "Omega – Sovereign of the Sun Spheres", la traccia che dà il titolo a tutto l’album. Un pezzo che apre con fiati solenni da parata medievale, che subito definisce i canoni della musica sinfonica e spara in quarta per mettere le cose in chiaro: Questo è un brano importante, è un pezzo che richiede attenzione e che ha tanto da dire. E’ chiara già da subito la complessità compositiva e lo sforzo che ha richiesto ai nostri. Ci troviamo di fronte ad una continua corsa senza sosta, saltellando sui continui goove ed i momenti più pesanti, che poi si dileguano in momenti ariosi in cui il brano si apre alla melodia, sempre supportata da cori di druidi misteriosi ed infatuati. "Omega – Sovereign of the Sun Spheres", racchiude un po’ tutti gli elementi ascoltati fino ad ora, tornano le scale intrecciate, gli assoli e il senso di inquietudine e claustrofobia che è capace di trasmettere solo una musica che sai che sta per aprirsi alla luce delle stelle e all’immensità del cosmo. Solennità sotto ogni punto di vista, il bridge torna a riempire il mio cuore di meraviglia e stupore, e l’epilogo dona alle mie estasiate trombe di Eustacchio, l’orgasmo uditivo finale.

Gli Epica quindi sono tornati e lo fanno alla stragrande. Si tratta di un album pazzesco, perfettamente al livello a cui la band ci ha abituati fino ad oggi e forse, è a tratti anche un gradino superiore ai lavori precedenti. Se “The Holographic Principle” (pur nella sua genialità e complessità), è stato un album che ha diviso i fan, “Omega”, saprà mettere d’accordo chiunque ami la band, il genere ma senza dubbio, è un lavoro che non può non essere amato ed apprezzato da chiunque ami la musica stessa. Gli Epica sono tornati e si sono superati, ci hanno scosso con questo nuovo album, per ricordarci che questa è la vera essenza, il cuore della band, che sa rinnovarsi pur senza mai snaturare se stessa e deludere i fan, ma che anzi, trovate già da anni le armi perfette per se stessi, non fanno altro che affilarle e potenziarle, album dopo album. Amatelo.

Anthony