A cura di Anthony
Sono poche le band che non solo riescono a mantenere una
costanza nelle uscite, ma ancora meno quelle che riescono a tenere alto l’interesse
verso la loro proposta, con intermezzi di Ep e altre release tra un album e l’altro,
cosa che hanno saputo fare benissimo gli Epica che, in questi cinque anni dall’ultimo
album, ci hanno regalato quasi una dozzina di lavori tra Ep e singoli inediti e
persino una versione di “Design your universe”, totalmente rimasterizzata. Arriviamo
quindi al fatidico momento, finalmente l’ottavo full-length della band
olandese, è arrivato. Cinque anni d’attesa sono lunghi (anche causa covid) ed
in tutto questo tempo i fan, benché allietati dalle continue piccole delizie
sfornate dalla band nel frattempo, si sono chiesti cosa dovessero aspettarsi da
questo “Omega”, molti già terrorizzati dal titolo, che effettivamente suona
come un punto d’arrivo, come se non ci fosse altro motivo per continuare.
Fortunatamente, la a dir poco meravigliosa Simone Simons ha dichiarato più
volte in alcune interviste, che questo non è affatto l’ultimo album della loro
carriera, ma che il titolo si riferisce alla “teoria del punto Omega”, cioè l’intersezione
che passa tra la scienza e la spiritualità, che si uniscono a spirale verso un
punto di congiunzione divina, chiamato appunto “Omega”. Basterebbe già questo per
chiudere qui la recensione, buttare via qualsiasi dubbio ed acquistare a
scatola chiusa il disco (comprate i dischi, mannaggia a voi!), soprattutto
quando non si placa la polemica su quella brodaglia di scarti organici che è il
festival di Sanremo, immaginate me, ora a godermi una tale meraviglia (non solo
musicale, ma concettuale e artistica), che vedo in tv marionette patinate che
si scannano per della merda sonora, spacciata per cioccolato sublime. Sconforto
e snobbismo musicale!
Comunque, chiuse le altre storie “Omega” si compone di
dodici tracce, più un Ep con altri 4 brani, chiamato “Omegacoustic”. Come da
tradizione per gli Epica, il disco si apre con una intro, in questo caso
chiamata "Alpha – Anteludium, tenui note di pianoforte, accompagnate da
archi, creano un’atmosfera piacevole, molto evocativa, una natura incontaminata
e fatata si apre nella mia mente, come un paradiso terrestre popolato da elfi
ed i crescenti cori sinfonici, creano castelli sulle nuvole e colori pastello,
una gioia per gli occhi e per la mente. Immediatamente dopo, parte il riffing
già inconfondibile di "Abyss of Time – Countdown to Singularity", il
primo singolo estratto da “Omega”. Un brano in pieno stile Epica, pomposo,
esplosivo, complesso, con un video enigmatico ed una perfetta potenza sonora,
amplificata da una corsa in doppia cassa che accarezza l’anima. Non mancano
aperture ariose e l’accompagnamento di cori che danno quel tocco di mistico e
macabro al tutto. Le voci si alternano e si intrecciano nel growl cupo e
minaccioso di Mark Jansen e alla voce angelica con numerose note liriche di
Simone, ci troviamo a correre lungo una corda intrecciata, fatta di oro, luce
solare e meraviglia.
Il tutto cambia e si trasforma con "The Skeleton
Key", atmosfere lugubri e pesanti che non ti aspetti, per un brano che
apre con un pianoforte inquietante che subito viene affiancato dalle sinfonie
occulte ed il growl la fa da padrone. La voce femminile sublime e delicata
scrive una vera e propria fiaba nera in musica. La luce che fino a poco fa ci
aveva attraversato ed accarezzato, pare svanita per lasciarci all’abbraccio
gelido, seppur melodico, delle tenebre di una soffitta vuota, di un labirinto
abbandonato, dove incontrare creature enigmatiche e dalle dubbie intenzioni,
che cercano di circuire la nostra mente. I cori con le voci dei bambini, sono
un tocco davvero inquietante, che non mi sarei aspettato. Ma un assolo
splendido, seppur un po’ corto, svia ogni dubbio e torno a godermi questa
storia dell’orrore gotico.
La sinfonia è la chiave intorno a cui tutto ruota ne "Seal
of Solomon", tornano le scale arabe da sempre tanto care alla band e l’intero
brano è una continua esplosione di melodia e sinfonia, come una immensa e
sincerissima preghiera dedicata a divinità ignote e dubbie. Anche qui la voce
principale è quella di Mark, che si appoggia alle note alte di Simone per
esplodere nella potenza compositiva di una sinfonia che riesce ad inquietare e
caricare, mantenendo un’atmosfera che sa di medio oriente e misteri celati da
secoli, tra le sabbie custodi di tempi lontani e indicibili, che tanto hanno
affascinato scrittori ed artisti, come il grande maestro H.P.Lovecraft. L’esplosione
che più colpisce nel segno tuttavia, è anche qui la corsa in solitaria della
chitarra di Isaac Delahaye, che si incastra perfettamente nel flusso
compositivo ed è praticamente la ciliegina sulla torta.
"Gaia" smorza un po’ la tensione che si era venuta
a creare con i brani precedenti. La splendida intro sinfonica con un fitto
tappeto di doppia cassa, fa da apri porte per un pezzo orecchiabile e solare,
che non disdegna la potenza sonora, ma che sacrifica le atmosfere più cupe, a
favore di un ritornello più orecchiabile e leggero. Non abbiamo il classico
intreccio di voci growl-clean, ma la parte vocale di “Gaia”, è lasciata quasi
totalmente a Simone, tranne che per il bridge in cui inciampiamo nel sottobosco
cupo e grezzo del growl. Anche qui è la parte sinfonica ad essere in maggior
rilevanza, dando l’idea di un brano “pieno” e “pregno”, di elementi, come un
piatto complesso e per niente semplice che all’assaggio, crea esplosioni di
sapori indistinti e paradisiaci sul palato. “Non so cosa c’hai messo, ma ne
voglio ancora!”.
Gli animi si placano e le atmosfere lugubri ed orientali si
affacciano subito nell’intro di "Code of Life". Torna il senso di inquietudine
e l’idea di “non essere al sicuro”, torna a lampeggiare come una spia che
segnala un pericolo. Chitarre squisitamente “metal”, ci portano nel vivo della
canzone. Melodie complesse ed inquietanti si incontrano e scontrano con un
sound angelico, evocativo, una pinza palese all’intro iniziale, ci troviamo nel
salone del castello visto in precedenza, davanti a noi un giardino dell’Eden colmo
di pericoli e sotto di noi una nuvola a sostenerci e l’immensità del cielo. Uno
dei brani più belli dell’intero album, una meraviglia per l’anima. Il
ritornello è una carezza, le orecchie squirtano in un orgasmo celebrale che
attraversa tutto il corpo ed il resto, semplicemente svanisce.
Arriviamo al secondo singolo estratto, ovvero "Freedom
– The Wolves Within", brano dal titolo importante che è diventato un “istant
cult”, merito anche del videoclip in cui due lupi si fronteggiano. Un brano
adatto ad essere un singolo per pubblicizzare un album in uscita, da cui si può
immediatamente capire l’andazzo. Una
boccata d’aria orecchiabile che ci prepara al pezzo più lungo e complesso dell’album,
cioè "Kingdom of Heaven, Part 3 – The Antediluvian Universe", ben
tredici minuti e venticinque secondi di concept, in pieno stile Epica. "Kingdom
of Heaven”, è infatti una saga musicale che la band porta avanti attraverso i
vari album, che si compone di sequel e prequel e che ogni brano, aggiunge un tassello
alla storia. Suoni ambientali ci accolgono con un volume basso, sono quasi
rassicuranti, anche se sappiamo che c’è molto altro sotto, cosa che si capisce
benissimo dall’ingresso degli archi e dei fiati che anticipano gli strumenti
più comunemente legati al metal. Una intro abbastanza lunga, che si prede tutto
il tempo per richiamare alla mente le immagini solenni che ci hanno comunicato
in precedenza. Si fa sul serio dopo la bella introduzione e le voci entrano in
gioco dopo quasi quattro minuti di melodia solenne e sublime. Si tratta di un
brano che racchiude diverse anime dentro di se, tutte perfettamente
riconducibili e padroneggiate dalla band, da quella più melodica e facilmente
approcciabile, a quella più squisitamente metal e aggressiva, fino al lato più
classico, sinfonico e lirico della band, il tutto amalgamato alla perfezione in
un processo songwriting complesso che richiede una grande consapevolezza, una
grande maestria sia nella padronanza degli strumenti, che nelle scelte di pre e
post-produzione. Un brano che si piazza di diritto accanto alle grandi
classiche perle create dagli Epica in questi anni, come “Design your Universe”,
“Serenade of self-destruction” e “The Holographic Principle (A Profound
Understanding of Reality)”, giusto per fare qualche nome. Gli assoli di
chitarra e tastiere, sono un punto altissimo, dove il progressive si abbraccia
al metal più prettamente “Heavy” e ancora una volta, tutto ciò, mi sembra solo
una sublime manifestazione di grazia, competenza e maestria dei nostri, che
ormai non hanno più niente da dimostrare a nessuno, ma che non riescono a non
sfiorare il divino.
Dopo tanta pomposità e grandezza, l’album cala i toni e si
placa con “Rivers”, l’unica ballad inserita nella tracklist, che è stata
inoltre il terzo singolo estratto prima del lancio ufficiale e che ha fatto impazzire
i fan della parte più lieve e malinconica degli Epica. Gingle delicato ed
orecchiabile e ci abbandoniamo nelle acque di questi fiumi infiniti, cullati
dalla voce dolcissima di Simone, che man mano ci accompagna in questo brano che
non presenta particolari tecnicismi, ma che è capace di suscitare emozioni
malinconiche e toccanti, principalmente nella seconda parte, quando il brano,
come da tradizione, si apre e ci dona l’ampio respiro pregno di sensazioni
forti e decadenti.
La calma tuttavia dura poco: ci ributtiamo nella mischia con
un altro dei brani più di valore di questo ottavo lavoro in studio, cioè "Synergize
– Manic Manifest". Riffing violento e veloce, che prende a piene mani dal
thrash e dal power metal, per andare a comporre un brano tuttavia luminoso e
scorrevole, che mantiene alta la tensione grazie anche ai continui mid-tempo
che si alternano al blast beat a sostenere un growl furioso, al limite del
death metal ed il tutto esplode in un assolo lungo e complesso che si arrampica
e volteggia tra scale e riffing, prima del ritornello finale, che risulta
essere la conclusione più naturale del brano, come se quasi chiamasse a sé,
quell’epilogo.
Ci avviciniamo purtroppo all’ultimo step, le segrete del
castello, con "Twilight Reverie – The Hypnagogic State", brano
totalmente in linea con i grandi pezzi ascoltati fino ad ora, con delle fasi
melodiche che non lascerebbero indifferenti neanche qualcuno che odi questo
genere, perché sono di una tale freschezza, una tale bellezza, sono
semplicemente aria fresca in un mare di banalità e schifezze, basta accendere
la radio per rendersene conto. Ad ascoltare pezzi simili, mi chiedo cos’hanno
tanto da atteggiarsi quelli che creano quell’inquinamento acustico chiamato “trap”
e soprattutto chi li ascolta; ma questo è un altro discorso. "Twilight
Reverie – The Hypnagogic State", è un brano splendido, il giusto tassello
che si incastra perfettamente in questo mosaico di bellezza sonora,
perfettamente in linea con i pezzi precedenti, come “Code of life” e
"Kingdom of Heaven, Part 3 – The Antediluvian Universe".
Chiude il cerchio, anche qui, come da tradizione "Omega
– Sovereign of the Sun Spheres", la traccia che dà il titolo a tutto l’album.
Un pezzo che apre con fiati solenni da parata medievale, che subito definisce i canoni della musica sinfonica e spara in quarta per mettere le cose in chiaro: Questo è un
brano importante, è un pezzo che richiede attenzione e che ha tanto da dire. E’
chiara già da subito la complessità compositiva e lo sforzo che ha richiesto ai
nostri. Ci troviamo di fronte ad una continua corsa senza sosta, saltellando
sui continui goove ed i momenti più pesanti, che poi si dileguano in momenti
ariosi in cui il brano si apre alla melodia, sempre supportata da cori di
druidi misteriosi ed infatuati. "Omega – Sovereign of the Sun
Spheres", racchiude un po’ tutti gli elementi ascoltati fino ad ora,
tornano le scale intrecciate, gli assoli e il senso di inquietudine e
claustrofobia che è capace di trasmettere solo una musica che sai che sta per
aprirsi alla luce delle stelle e all’immensità del cosmo. Solennità sotto ogni
punto di vista, il bridge torna a riempire il mio cuore di meraviglia e
stupore, e l’epilogo dona alle mie estasiate trombe di Eustacchio, l’orgasmo
uditivo finale.
Gli Epica quindi sono tornati e lo fanno alla stragrande. Si
tratta di un album pazzesco, perfettamente al livello a cui la band ci ha
abituati fino ad oggi e forse, è a tratti anche un gradino superiore ai lavori
precedenti. Se “The Holographic Principle” (pur nella sua genialità e
complessità), è stato un album che ha diviso i fan, “Omega”, saprà mettere d’accordo
chiunque ami la band, il genere ma senza dubbio, è un lavoro che non può non
essere amato ed apprezzato da chiunque ami la musica stessa. Gli Epica sono
tornati e si sono superati, ci hanno scosso con questo nuovo album, per
ricordarci che questa è la vera essenza, il cuore della band, che sa rinnovarsi
pur senza mai snaturare se stessa e deludere i fan, ma che anzi, trovate già da
anni le armi perfette per se stessi, non fanno altro che affilarle e
potenziarle, album dopo album. Amatelo.
Anthony